Storia di Aurora di Massimo Ugolini, interpretata da Francesca Tranfo
28 novembre 2000, il giorno in cui te ne sei andata… Te ne sei andata?… ti hanno mandata via!
Eh sì, Aurora, non ti sei mai goduta quello che invece ti spettava “di diritto”. Quel diritto che una mano assassina, in una sera di novembre, ti ha negato per sempre.
L’avanzare di nuove speranze, nuove sfide, il futuro in cui riponevi sempre così tante aspettative: negato, in un attimo, a quarantatrè anni. Negata tutta una vita, passata e futura, in una manciata di secondi.
Aurora, tu eri una donna protesa verso il futuro. Sempre in movimento, con il tuo sorriso, la tua camminata un po’ stramba, che riconoscevi da lontano, con quel tirarti su i calzoni, aggiustarteli alla vita, una specie di tic, e con i tuoi modi sempre gentili ma decisi di persona sicura di sé.
La sera quando noi ragazzi per lo più sfaccendati stazionavamo in piazza, persi fra discussioni, cazzeggio e vita quotidiana, ti vedevamo in lontananza arrivare come un soldatino, sempre di fretta, con la tua camminata quasi saltellante, un sorriso stampato sul volto, che era bello e qualche volta stanco. Tu eri un soldatino, Aurora. Si, perché tu, Aurora, lavoravi. Per la verità che io mi ricordi, Aurora, tu hai sempre lavorato, una agente di viaggi. Un lavoro perfetto per te e che infatti amavi.
Un lavoro di relazioni, di contatto con il pubblico, di viaggi, evidentemente, e di nuove, sempre nuove amicizie. Eri il nostro riferimento per qualsiasi spostamento, non si organizzava viaggio o vacanza se prima non ci si era consultati con Aurora, ovviamente. Eri davvero molto brava nel tuo lavoro, io posso dirlo, abbiamo lavorato insieme per un periodo, in una agenzia, io come fattorino e tu come agente già molto affermata.
Una donna moderna. Indipendente già da giovanissima, emancipata, libera. Una donna, una ragazza prima, che ha sempre dato l’impressione di sapere che cosa volesse dal futuro, sempre così come eri, proiettata in avanti.
Eri bella, Aurora, nei tuoi 150 centimetri di altezza, un fisico proporzionato e tonico, i capelli a criniera di leone lasciati un po’ selvaggi ad incorniciare un viso bellissimo a cui gli occhiali davano solo ulteriore fascino, gli occhi grandi come castagne e un sorriso contagioso su una bocca bellissima.
Ci siamo conosciuti che eravamo poco più che adolescenti. Abitavamo nello stesso quartiere, qui a Decima. Un quartiere di periferia, allora estrema periferia di Roma, erano gli anni 60, in pieno boom economico, servivano case e aree da qualificare per ulteriori speculazioni. Era un quartiere molto isolato e per noi giovani, adolescenti, ragazzini di quegli anni, era naturale incontrarsi, fare amicizia, ritrovarsi in quel bel quartiere nuovo, sperso nel verde ma così privo di tutto.
Non ricordo bene come ti conobbi, Aurora. Ricordo che fosti una delle prime “fidanzatine” di mio fratello più grande, ma non ricordo esattamente se la nostra amicizia risaliva a prima o dopo la nostra improvvisa quanto temporanea “parentela”.
Fatto sta che diventammo amici e che con te incominciai a condividere gran parte del nostro comune impegno sociale e politico. Nel quartiere, nella FGCI e poi nel “Partito”, ovviamente il P.C.I. Sono quasi convinto che se ora potessimo parlare di politica, della nostra situazione attuale, di Renzi per esempio, litigheremmo. Si, perché la cosa che mi ha sempre stupito di te era questo contrasto fra la tua moderazione politica, che non mi è mai appartenuta, e la tua vita privata così “rivoluzionaria”. Ora credo che saresti una renziana; con riserve, ma una renziana. E questo sarebbe un argomento di accesa discussione fra noi due.
Ma in fondo so il perché di questa apparente contraddizione, che mi ha sempre incuriosito, fra il tuo carattere pubblico e quello privato, fra il tuo credo politico e il modo di condurre la tua vita. Faceva parte del tuo essere, tu, Aurora, eri, a dir poco, “ecumenica”. Non ragionavi mai in termini ideologici, come molti di noi, non trasportavi il tuo credo politico nelle sfera privata, non ne eri capace, già guardavi oltre le ideologie. Guardavi l’uomo, e non ti interessava poi molto la sua appartenenza politica. Non giudicavi una persona per quello in cui credeva politicamente, ma per quello che era. Il tempo ha decretato che in fondo avevi ragione tu, e questo è un altro segno distintivo della tua propensione al futuro. Non avevi muri ideologici nella tua mente, ma solo tanta voglia di vita.
La nostra era una amicizia consolidata da tanti sogni comuni. Una di quelle amicizie che durano nel tempo, quel tipo di rapporto che, se anche non ti vedi per anni, alla prima occasione di incontro te lo ritrovi lì, tutto completo, come non si fosse mai interrotto. Fra me e te, Aurora, era così, ed è stato così che le nostre vite si sono ritrovate per l’ultima volta.
Un paio di mesi prima di quel tragico 28 novembre mi chiamasti al telefono. Erano anni che non ci sentivamo e ne rimasi sorpreso, piacevolmente sorpreso. Dopo i soliti convenevoli e le reciproche accuse di essere spariti, venisti al punto di quella telefonata. Non mi spiegasti molto, però, al telefono, ma ci demmo appuntamento per quella sera dopo il lavoro.
Rincontrarti fu un piacere. Eri, come al solito, sempre pimpante, con quei tuoi slanci di affetto che ti mettevano subito a tuo agio e che facevano sembrare gli anni trascorsi senza vederci un attimo di distrazione. Insomma, ci ritrovammo subito e, dopo le ovvie rimembranze del tempo passato, mi dicesti perché mi cercavi. Volevi aiutare un tuo amico che aveva avuto problemi con la legge, cose di poco conto, import-export di macchine probabilmente rubate, per cui si era preso qualche anno di galera, ed ora stava agli arresti domiciliari. Sapevi che avevo aperto una falegnameria con altri due soci, in via Libetta a San Paolo. Per farla breve, in accordo con l’avvocato del tuo amico stavate cercando un affido lavorativo, per aiutarlo.
Mi garantisti che era un bravo ragazzo, che era una persona a cui tenevi molto e che volevi aiutarlo. Si chiamava Claudio, il cognome credo di non averlo mai saputo. Lo avevi conosciuto in vacanza, in Sicilia mi sembra, lui faceva volare gli aquiloni. Scherzammo su questo e ti dissi che forse aveva fatto volare in alto anche qualche altra cosa, “il tuo cuore, per esempio?”. Il tuo cuore che spesso volava alto, sempre in cerca dell’amore. Una bella storia, pensai, non mi scandalizzai certo per la disavventura legale dell’amico, e certo non mi scandalizzai per la tua scelta affettiva, Aurora. Non eravamo certo persone che giudicavano un lanciatore di aquiloni caduto per il momento in disgrazia.
Purtroppo non potevo darti molte speranze, era un momento difficile per noi, uno dei tre soci era stato infedele, lasciandoci in un mare di guai con il lavoro e con le finanze. Ma ero lusingato dal fatto che tu, in un momento di bisogno, avessi pensato a me e per una cosa così delicata: voleva dire che sapevi chi ero, che il tempo senza vederci, in fondo, non ci aveva allontanato così tanto, ma, soprattutto, che il tempo trascorso insieme ci aveva fatto capire chi veramente fossimo… e, certo, mi piaceva l’idea di poterti essere utile. Non dissi di no, però: ti dissi che avrei sentito il commercialista, e altri amici che avevano attività che prevedevano questi inserimenti, e che mi sarei comunque informato e interessato. E così feci.
Dopo poco più di un mese avevo tutte le risposte: negative! La nostra commercialista ce lo sconsigliava vivamente, vista la nostra situazione, e altri amici anche. Ti chiamai, finalmente, non ti avevo più sentito per darti risposta, e purtroppo la risposta che ti diedi non poté che essere negativa.
Questa ultima conversazione con te, Aurora, non la scorderò mai. O, meglio ancora, quello che non scorderò mai è la sensazione che mi lasciò quella telefonata, non le parole dette, che pure mi sorpresero, ma quello che lasciarono dentro di me. La telefonata fu strana, in effetti, Aurora: avevi rinunciato al tuo progetto di aiutare il tipo e, anzi, ti scusavi per il disturbo, ma che era meglio così, era meglio lasciar perdere. Capii, ma… ripeto, non furono le parole, fu il tono con cui le dicesti. Eri arrabbiata, allarmata, preoccupata e, poi ho pensato, impaurita.
Non era da te, non t’avevo mai sentita così.
La telefonata durò poco, con la promessa di rivederci presto. Ma, appena attaccai, ebbi subito quella sensazione di disagio, come una sensazione di cose non dette. No, non era da te, volevo richiamarti subito per chiederti se volevamo comunque vederci, se volevi parlare, se stava tutto a posto, ma non lo feci.
Dopo pochi giorni eri morta. Strangolata. Strangolata proprio da quell’uomo che volevi aiutare e che evidentemente non potevi più salvare, né salvare te stessa.
Lo seppi dal giornale, come molti, l’assassino, dicevano, era ancora ignoto. Ma io sapevo, tutto mi si era chiarito in quel momento stesso in cui avevo letto la notizia. Il mio senso di disagio per quella telefonata che ancora mi portavo dentro, quella sensazione di cose non dette, quel comportamento a te così estraneo erano l’annuncio di una tragedia. Telefonai subito alla polizia, mi convocarono in via Inselci, al Commissariato, e lì deposi la mia inutile testimonianza.
Inutile perché già sapevano tutto, e mentre stavo lì capii che avevano già preso quell’uomo o che comunque stavano sulle sue tracce.
I giorni a venire furono pieni di tristezza e di domande, molte delle quali senza risposta, e pieni di sorpresa e di stupore. Possibile che nessuno di noi si era accorto di nulla? Non riuscivo a capire, non capivo come potesse essere successo a te, sempre così attenta, certo non esageratamente prudente, ma attenta sì. Non si vive la vita piena come la intendevi tu, Aurora, con cautela. Non c’è diffidenza, non può esserci sospetto, se si vuol vivere a pieno la vita.
Aurora, tu eri attenta, ma dopo poco più di un anno gli aquiloni non volavano più sopra la tua testa e nel tuo cuore. Le persone ci deludono, il vento che fa vibrare gli aquiloni cala o diventa così forte da strapparceli di mano, succede e fa parte della vita anche questo.
E, allora, non tutto è perduto, non tutto deve necessariamente essere perduto. Aurora, tu sapevi che, comunque, rimane il rispetto, il bene profondo, la solidarietà. La disciplina che regola i rapporti umani, appresa in tanti anni di lotte, di amore, di partecipazione, di fratellanza, non prevedeva questo, non prevedeva questo finale, non a te.
Ho provato tante volte ad immaginarti, Aurora, in quel momento. E la sorpresa e lo stupore e la tristezza che ora provo per quello che è successo in quella fredda sera di novembre sono, forse, gli stessi che tu hai provato in quel momento, in quell’attimo in cui hai capito. Riesco a vedere nei tuoi occhi grandi, nel tuo sguardo disperato di quel momento, lo stupore e la tristezza per un gesto che era oramai ineluttabile e così assurdo, così estraneo a te. I tuoi occhi così belli, così grandi e spalancati alla vita. I tuoi occhi rapiti nel veder volteggiare aquiloni in quel bel cielo di Sicilia, solamente un anno prima.
Ora stiamo qui, in questo posto che porta il tuo nome. In questo posto che avevi contribuito a creare e che ora porta il tuo nome bello e pieno di promesse, proprio come eri tu. La promessa di un nuovo giorno, di un nuovo amore, di un altro impegno nella vita, affrontata così, in maniera naturale, come è naturale il sorgere di un nuovo giorno.
Finisce così. Con un uomo perso nelle sue azioni, nel suo disagio, nella sua incapacità di capire che gli aquiloni non volano per sempre, che non volano sotto la pioggia o in assenza di vento. E una donna, persa per sempre, che invece sapeva che se non fossero volati oggi, domani magari, domani sì, domani sarebbe stato un altro buon giorno per farli volare, su in alto, nel cielo.
Prefazione di Dacia Maraini al testo “Donne che amano troppo” di Robin Norwood condiviso da Susanna Quaranta
Ma quand’è che si ama troppo? Quand’è che l’amore si trasforma in qualcosa di malsano, di pericoloso per la nostra salute fisica e mentale?
Quando essere innamorate significa soffrire tutto il tempo, stiamo amando troppo.
Quando giustifichiamo tutti i malumori, il cattivo carattere, l’indifferenza, i tradimenti del partner, stiamo amando troppo.
Quando siamo offesi dal suo comportamento ma pensiamo che sia colpa nostra perché non siamo abbastanza attraenti o abbastanza affettuose, stiamo amando troppo.
“Bellissima” di Lisa Carboniero interpretato dal gruppo teatrale Opera Decima (Carla Antonini, Daniela Cerrino e Rossana Zanobbi)
Come sei bella.
Me lo ripeteva in continuazione, prima che ci sposassimo. Allora aveva und sguardo.. due occhi luccicavan mentre me lo diceva. Anche ora lo dice, a volte meccanicamente, a volte invece con un misto tra arroganza perversa soddisfazione. Soddisfazione perché è lui la ragione di questa bellezza, il creatore di questo corpo e di questo viso, l’uomo che paga la palestra, le iniezioni di botulino, i vestiti firmati, e tutto quello che mi fa luccicare, compreso l’enorme diamante che porto al dito. L’uomo che pianifica i miei interventi di liposuzione, che decide tinta e taglio dei miei capelli, che mi controlla mentre mangio, mentre parlo con gli altri. lo senza di lui non sarei stata capace di costruirmi questo corpo perfetto fui che devo ringraziare, se non posso concedermi una fettina di dolce nemmeno per il compleanno Mangio di nascosto un dolce intero e poi lo vomito, di notte, quando non può vedere i miei occhi rossi e gonfi coi capillari rotti per lo sforzo,
Avrei voluto un bambino, mi sarebbe piaciuto essere mamma, ma lui mi ha minacciato: non tirarmi questo scherzetto, mi ha detto. Un figlio lui lo chiama scherzetto. Il mio corpo si trasformerebbe. Come farebbe a mostrare il suo trofeo agli amici e al personaggi in vista che frequenta? Questa è la mia bellissima moglie, dice sempre, quando deve presentarmi a qualcuno di quell’ambiente. Per me la parola bellissima è una parola violenta, dietro si nasconde la fame, la stanchezza, il dolore, l’impossibilità di piangere. Non riesco a lasciarlo, non posso. In fondo non mi hai mai messo le mani addosso. Ha preferito violentarmi dove gli altri non possono vedere, nel fondo dell’anima Poi quando non ce la faccio più e scoppio a piangere, lui mi prende tra le sue luride braccia, mi accarezza il viso e mi dice che lo fa per me, per il mio bene. A volte vorrei non essere mai stata così bella. Ma chi potrebbe mai amarmi se fossi brutta? Lui dice che senza questi occhi e queste gambe non varrei niente, sono una stupida donna senza carattere, non potrei mai cavarmela nella vita se al fianco non avessi un uomo come lui. A volte mi chiedo quanto andrà avanti questa corsa contro il tempo. Non posso restare bella e giovane per sempre, sarebbe un castigo troppo grande. Sogno di svegliarmi un mattino, sogno che siano passati quarant’anni, sogno di essere entrambi vecchissimi, seduti davanti ad un caminetto acceso, con un libro in mano e il caffè sul fuoco, e forse un nipotino sulle ginocchia a cui raccontare una storia. Quando l’ho confidato a lui, ghignando mi ha risposto che preferirebbe vedermi morta che vecchia. lo continuo a sognare, e alla fine della giornata, quando arriva l’imbrunire, il pensiero più dolce è che una giornata in meno mi separa dal mio sogno di felicità.
“L’amore preteso” di Michele Belsanti interpretato da Luisa Stagni
Un tempo mi amavi, ti amavo,
ma adesso io non ti aspettavo,
negli occhi hai uno sguardo che tremo,
mi dici lo sai che ti amo,
ti amo, anche tu devi amarmi,
mi dici non devi lasciarmi,
avanti, non fare la scema, dai su, dammi un bacio:
io no, non ti bacio. Ma brucio
Ritorna, mi dici, ti voglio,
ti dico sarebbe uno sbaglio
ma tu non mi ascolti, non senti,
hai lunghi respiri violenti,
mi afferri le braccia, mi blocchi,
mi gridi puttana, lo succhi,
mi prende il terrore, non parlo, la bocca mi cucio:
io no, non ti bacio. Ma brucio.
Io e te, qui da soli, per strada,
nessuno, nessuno che veda,
mi abbracci, però non è bello,
perché stai abbracciandomi il collo,
lo prendi, lo chiudi, lo stringi,
mi gridi tu non mi respingi,
io soffoco, annaspo, è rabbioso lo sguardo che incrocio:
oh no, non ti bacio. Ma brucio.
Non hai più carezze, ma pugni,
sul volto ora sento i tuoi segni,
continui a picchiare, a colpire,
e poi all’improvviso il sapore
del sangue diventa benzina.
Negli occhi hai una luce assassina.
E poi tutto è dolore ed è fuoco, ma non d’artificio:
io no, non ti bacio. Ma brucio.
6 agosto 2016
Maria Cristina Rencricca, operatrice del Consultorio di Corviale si collega alla poesia appena letta condividendo la lettera delle amiche di Sara Di Pietrantonio, che il suo ex ha cosparso di alcool e le ha dato fuoco.
Le amiche di Sara continuano a restare, nonostante e oltre il buio della morte e continuano a parlare della loro amica, a parlare con Sissi, come ha voluto fare la Fra.
In questi anni mi ha sempre accompagnato un profondo silenzio, probabilmente dovuto all’incapacità di accettare ciò che è successo.
Un dolore inspiegabile, un vuoto disarmante e una rabbia feroce verso chi si è permesso di rubare la tua vita. Infinite domande a cui nessuno potrà mai dare una risposta.
Sara, adesso mi sento pronta a parlare, a parlarti mia cara amica.
Ti scrivo perché la scrittura è sfogo, espressione di ciò che sentiamo, testimonianza. Ho capito ancor di più di quanto non lo sapessi, che le parole hanno un potere immenso di cui spesso non ci rendiamo conto, possono essere balsamo, ma possono essere lame.
Le stesse parole che ti hanno ferita, ingannata, svilita, offesa, spenta ed infine uccisa. Quelle parole, quelle di Vincenzo, che sono penetrate cosi in profondità nella tua mente, nella tua anima, da arrivare a plagiarti, a svuotarti, a non farti rendere conto della pericolosa realtà che stavi vivendo. Delle volte è la violenza psicologica a far male ancora più di quella fisica, perché si infiltra tacitamente, ti manipola da dentro, ti incatena l’anima e ti trovi cosi prigioniera, privata della libertà di scegliere. Scegliere chi essere, chi amare.
Chi eri io lo sapevo perfettamente. Una donna forte che, con grande determinazione, fatica e senso del dovere, stava raggiungendo tutti i suoi obiettivi. Eppure, in questo frangente, la tua poderosa personalità è stata annientata.
Se io avessi capito fino in fondo la tua impotenza, ti avrei aiutata ancor di più, ti avrei potuta salvare. Se tu avessi chiesto aiuto, ti saresti salvata. E chiedere aiuto non sarebbe stato un atto di debolezza ma, al contrario, un atto di grande saggezza. Tutti dovremmo imparare a chiedere aiuto quando ci troviamo davanti a cose che non siamo in grado di gestire. Gli amici ci sono anche per questo. Se fossi stata più consapevole del gioco dei ruoli in cui eri finita, qualcosa sarebbe cambiato. Eri così assoggettata da non poter dare peso a quel vortice di gesti apparentemente protettivi e benevoli che, altro non erano, che prevaricazione. Quando finalmente hai deciso di riprendere la tua vita quando finalmente hai deciso di vivere, e non più sopravvivere, ormai era troppo tardi.
Sei con me in ogni momento. Sto vivendo per due, perché meriti di continuare ad esistere.
Cecilia Lavatore interpreta due suoi testi
Masha
Ci sono le ragazze che sanno piegare le camicie, le canottiere e anche le lenzuola grandi e anche da sole. Le piegano precise, un lato sull’altro, e le sistemano nelle cassettiere, nei comò, negli armadi, anche nei ripiani alti: prendono le sedie, ci salgono su e le mettono impilate. Poi chiudono bene le ante.
Ci sono le ragazze che quando si tolgono le scarpe, le lasciano riposte in modo simmetrico, la destra a destra e la sinistra a sinistra. E sia una che l’altra fuori casa, così non si rovina il pavimento. Non si sporca.
Ci sono le ragazze che quando rifanno la cucina, non rompono mai nulla e non lasciano neanche un alone sui piatti, brillano pure i bicchieri, luminosi, come un venerdì mattina d’estate alla piazza di fronte alla moschea. Con il muezzin che canta. E tanto sole. Tutto pulito.
Ci sono le ragazze che quando si mettono il velo, raccolgono insieme i capelli, uno per uno, nessuno escluso, e li legano nei lacci stretti,
nei lacci tesi,
nei lacci estesi
alla testa intera.
E poi usano le forcine, per prendere le ciocche e nasconderle bene, come i bisogni. Sotto la stoffa. La stoffa buona, dei giorni di festa. Dei desideri incastrati sul cuoio capelluto del cuore. Della voce del vero da occultare con cura.
Ci sono le ragazze ordinate, rispettose, previdenti
e poi, invece,
c’è Masha Amini, che ha sempre fatto un po’ di difficoltà con le ricostruzioni del caos.
È una di quelle persone che sul quaderno scrive una lettera più grande e una più piccola, lo spazio ineguale tra le parole, le cancellature,
non per un motivo in particolare, è che le viene naturale. La sua maestra diceva: “è indole”.
Lascia il tubetto del dentifricio aperto, o le calze sotto al letto se ha sonno. La bottiglia del latte senza tappo. Le matite spuntate.
È bella così, un po’ confusionaria. Non è che sia una ragazza maleducata. Anzi.
È che ha i pensieri disorganici, che le frullano sotto a tutti quei capelli come pale del ventilatore, come le trottole sulle punte dei piedi. Per non disturbare.
Ha quella cosa che si chiama “personalità creativa”: propria di chi forma associazioni di significato tra elementi apparentemente distanti.
E per questo sembra trascurata. Insolente. Indolente.
Che poi non è che è una che ami la trascuratezza
o le polemiche.
Il fatto, vedete, è che è nata così:
con tutti quei capelli.
“È una cosa di famiglia. Quello pure la mamma, la mamma della mamma, la zia, perfino il papà.” Sono capelloni gli Amini.
È il 16 settembre dell’anno che corre quando il disordine di Masha, ventidue anni, di origine curda e fusto iraniano, le costa la vita.
Sta camminando su libera strada a Teheran, dov’è in visita di parenti insieme ai genitori.
“La portiamo via solo per un controllo”.
“Arresto cardiaco” scrive nel verbale la polizia morale e ogni complice del male di opprimere.
E il cuore effettivamente si è fermato. Non è più ripartito. Ma per un massacro.
Massacrata di colpi su di lei e su di un genere scomodo.
Da quel giorno, le proteste nel Paese di Masha Amini e altrove sono iniziate e non si sono più fermate.
Per la prima volta nella storia del mondo islamico, sono proteste gestite per lo più da donne per le donne
e per gli uomini che non vogliono arrendersi a un regime che si regge sull’odio.
Centinaia di persone sono già morte tra la folla che si riversa sulla strada.
Che è disordinata, che è disordinata,
che è disordinata.
Ed è bellissima.
Safi
Alla testa, al cuore, al petto, ai reni, alle gambe.
“Le ferite erano ovunque, troppe per poterle contare.”
Alla testa, al cuore, al petto, ai reni, alle gambe.
“L’abbiamo riconosciuta dai vestiti, i proiettili le hanno distrutto la faccia”.
Alla testa, al cuore, al petto, ai reni, alle gambe.
“L’anello di fidanzamento non c’era più. E neanche la borsa.”
Alla testa, al cuore, al petto, ai reni, alle gambe.
“Era uscita di casa con i documenti”.
Alla testa, al cuore, al petto, ai reni, alle gambe.
“Non è più tornata”.
Si chiamava Safi Frozan.
29 anni, docente di Economia all’università di Kabul, attivista per le donne,
donna.
Afgana. Nella testa, nel cuore, nel petto, nei reni, nelle gambe.
La prima vittima dal ritorno al potere dei talebani.
Ingannata da una telefonata che le aveva promesso l’espatrio in Germania: il 20 ottobre del 2021 Safi era uscita di casa con la testa, il cuore, il petto, i reni, le gambe e altre tre attiviste, compagne, afghane, libere, lottatrici, assassinate.
Trivellate da un regime voluto in principio dall’America, e poi tornato per precipitare quel pezzo di Medioriente in un pezzo di Medioevo che uccide a sangue freddo. Ad esempio quattro giovani femmine brillanti, intelligenti, pensanti,
intrappolate in una stanza foderata di tappeti, con del tè versato alla maniera tradizionale, dall’alto alto verso il basso basso.
Incastrate in un appartamento a nord del Paese, in un quartiere con gli alberi di conifere, in una città, Mazar – I – Sharif, che sta anche nelle guide turistiche, nota per la bellezza della sua maestosa moschea turchese, d’oro, verde, piena di maioliche e altre manifestazioni grafiche di grazia divina che i talebani evidentemente non hanno osservato abbastanza.
Avevano partecipato alle proteste nella Capitale, avevano ricevuto intimidazioni e minacce, avevano ottenuto l’asilo politico in Europa, l’attenzione di due associazioni umanitarie, la benedizione delle loro famiglie. “Andate e raccontate cosa sta succedendo”.
Sono le ore 8.09 AM di un giorno feriale quando Safi giace immobile in una camera di obitorio a più di due settimane dalla sua scomparsa.
Rita, la sorella, di professione medico, ha preso un permesso in ospedale per motivi molto personali. Deve andare a capire se è proprio quella che è cresciuta con lei l’ammasso freddo di pelle e ossa appena ritrovato senza vita.
E purtroppo è Safi, nient’altro che Safi Frozan, il corpo tirato dentro una fossa, tirato fuori una fossa, tirato lungo una strada, disteso sopra un lettino. Con tutti quei colpi addosso. Accidenti.
Il frigo dimenticato aperto, le merendine scartate, le molliche per terra, i racconti sotto le lenzuola con la torcia accesa fino a notte fonda, le costruzioni in legno, i loro appunti, i fiori azzurri, il giorno della festa di Laurea, l’ultima fetta di torta, il coltello con la punta arrotondata, il pettine a denti stretti, il timbro di voce uguale,
il sangue di tutta una generazione.
Io non ti lascerò, sorella mia
nella testa, nel cuore, nel petto, nei reni, nelle gambe.
Frammento dell’ articolo scritto da Marilyn Monroe condiviso da Monica Marin
La denuncia della cultura delle molestie sessuali a Hollywood non è iniziata nel 2017 o con le accuse a Harvey Weinstein, ma molto prima. Nel gennaio 1953, all’età di 27 anni, Marilyn Monroe fu coautrice, con la giornalista Florabel Muir, di un articolo intitolato “Wolves I Have Known” “i lupi che ho conosciuto” parlava diffusamente della sex culture di Hollywood. Pubblicato su Motion Picture and Television Magazine, il pezzo denunciava la famigerata pratica predatoria del casting couch che permetteva agli uomini in posizioni di potere di abusare delle aspiranti attrici. “Il primo vero lupo che ho incontrato avrebbe dovuto vergognarsi di sé stesso, perché stava cercando di approfittare di una semplice bambina.” Scriveva la star e continuava elencando tutti i predatori incontrati fino a quel momento. “Erano pieni di falsità e di fallimenti. Alcuni erano viziosi e disonesti. Ma erano quanto di più vicino al cinema si potesse avere. Così ti sedevi con loro, ascoltando le loro bugie e i loro piani. E vedevi Hollywood con i loro occhi: un bordello sovraffollato, una giostra con letti al posto dei cavalli”. Nonostante gli abusi subiti, Monroe è stata la prima a smascherare un sistema corrotto: “A Hollywood la virtù di una ragazza è molto meno importante della sua pettinatura. Si viene giudicati per il proprio aspetto, non per quello che si è. Hollywood è un posto dove ti pagano mille dollari per un bacio e cinquanta centesimi per la tua anima. Lo so, perché ho rifiutato abbastanza la prima offerta e ho resistito per i cinquanta centesimi”. Per quanto ingenua, Marilyn aveva presto capito che “non era questo il modo per ottenere un lavoro nel cinema”.
Storia di Amina, condivisa da Elena Tredici
AMINA FILALL, MAROCCO
É stata violentata a sedici anni e costretta a sposare il suo stupratore. Una legge permetteva cosi all’uomo di poter sfuggire alla giustizia se la sua vittima aveva meno di diciotto anni. Amina è invece sfuggita all’ingiustizia ingerendo del veleno per topi nel maggio 2012. Ma il suo suicidio ha suscitato proteste in tutta la regione e, finalmente, nel 2014, la legge che rendeva di fatto lo Stato complice della copertura di uno stupro è stata abolita. Nel corso del 2017 è stato eliminato il “matrimonio riparatore” anche in Tunisia, Giordania e Libano ma questa legge vige ancora in molti altri Paesi tra i quali Algeria, Bahrain, Filippine (a maggioranza cattolica), Iraq, Kuwait, Libia, Siria, Tajikistan… In Italia il “matrimonio riparatore” (ex art.544 del codice penale) è stato abrogato il 5 agosto 1981 (Legge 442) a ben 16 anni dal rapimento della siciliana Franca Viola e dal suo coraggioso rifiuto di sposare il suo rapitore e violentatore. Solamente nel 1996 lo stupro da reato “contro la morale” sarà riconosciuto come un reato “contro la persona”
FONTI: Hassiba Hadj Sahraoui, Ricordando Amina, in Amnesty, luglio 2015, n.3, pag.8: Carla Pecis, in Noi Donne, 07/08/2017